Il 21 gennaio 1921, cento anni fa, nello stesso giorno avvengono due nascite: a Livorno, nel contesto della scissione con il Partito Socialista vede la luce il PCI – Partito Comunista Italiano – alla rincorsa del mito bolscevico; a Besana in Brianza (MB) emette i suoi primi vagiti un interprete di grande valore della letteratura contemporanea. Quale relazione sussiste tra questi due fatti apparentemente non correlati? Forse ai solerti epigoni culturali di quello che fu il più grande partito comunista dell’occidente poco rileva che Eugenio Corti, autore dell’intramontabile “Il Cavallo Rosso”, sopravvisse alla morte del loro contenitore politico ma di converso, chi ama la libertà, l’identità e la verità non può non ravvisare quanto il destino appaia spesso ironico e beffardo. Non è una sola questione di comune genetliaco ad intersecare i nostri due soggetti ma la naturale contrapposizione che spinse lo scrittore brianzolo a spendere gran parte della sua vita a denunciare i pericoli del comunismo politico, rappresentato dai regimi oltre cortina, e del comunismo culturale che ancor più pervicacemente travalicò Varsavia per annidarsi nelle viscere della nostra società.
Corti fu un combattente per tutta la sua esistenza. In gioventù trascinato prima sul fronte orientale con il CISR – Corpo Italiano Spedizione di Russia – dal quale rientrò, uno dei quattromila sopravvissuti tra i trentamila inizialmente presente, poi volontario del CIL – Corpo Italiano Liberazione – embrione del neo-ricostituito esercito italiano dopo la nera pagina dell’8 settembre ’43. Uomo controcorrente, primo testimone su carta della disfatta italiana in Russia (suo il volume “I Più Non Ritornano”, Garzanti ’47), ingaggia al termine del periodo bellico la sua più grande battaglia, quella culturale, legato alla promessa rivolta alla Madonna che se fosse tornato dalla Russia si sarebbe dedicato a testimoniare le storture delle ideologie novecentesche. La pubblicazione della piece teatrale “Processo e morte di Stalin”, 1962, oltre ad attirargli gli strali dell’intellighenzia culturale nostrana rileva la sua innata volontà nello sperimentare forme e stilemi.
Leggere oggi “Il Cavallo Rosso”, pubblicato in prima edizione nel 1983, significa immergersi in una cultura tipicamente glocal: dalla prospettiva di Nomana (paese brianzolo di fantasia) si vivono gli stravolgimenti del ‘900. “L’universale si riverbera nel particolare” è la cifra di quest’opera scritta da colui che, non a torto, è stato definito il Tolstoj lombardo.
Due compleanni, due destini non esauriti con il termine del loro cammino terreno ma che, ancora oggi seppure con forme diverse, fluiscono nel cammino della cultura e della società contemporanea.